martedì 27 settembre 2016

Bud Powell (September 27, 1924 – July 31, 1966)

92 anni fa nasceva uno dei pianisti più influenti del jazz moderno.
Che cosa scorre nelle vene mr Powell?

(dedicata a Bud Powell)

Che cosa scorre nelle vene mr Powell?
Be Bop? Be Bop!
Quella lava incandescente che annienta
il conformismo musicale esistente?
Quell’adrenalina cubista di note
cannibali in caccia spietata
al conformismo?
Che cosa scorre nelle vene mr Powell?
Bop? Bop!
Quello spiazzamento sistematico
delle attese per cui tu ti aspetti qualcosa qui
ed invece appare lì?
Che cosa scorre nelle vene mr Powell?
L’incapacità di stare fermi
perché nessun posto è il tuo posto?
L’essere così avanti da non ritrovarti più
nemmeno fermando la tua vita per anni?
L’essere Minotauro e Teseo senza il filo
di Arianna?
Che cosa scorre nelle vene mr Powell?




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(poesia e disegno di Alberto Arienti)




A QUATTRO MANI

“E’ successo che, dopo il Conservatorio, sono finito per essere etichettato come jazzista e invitato anche all’estero a suonare con Ambrosetti. Arrivati a Pigalle, c’erano Ray Charles, Lou Bennett, Kenny Clarke, Poi è comparso Bud Powell. Mi ricordo che dopo due giorni si è affezionato a me e si è messo in testa di insegnarmi sul serio come si suona lo strumento, insistendo a tal punto nel comunicarmi l’urgenza di sviluppare la mano sinistra da arrivare a legarmi la destra dietro la schiena.”
Dall’intervista di Luca Cerchiari a Enzo Jannacci, pubblicata su Musica Jazz dell’aprile ’84.

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Il giovanotto magro con la faccia da Busterkiton stava suonando How high the moon: suonava un po’ meccanicamente come una pianola che avesse tradito Errol Garner per il bebop, però ci dava dentro. Era come un gregario che stava tirando la volata al suo capitano, ma qui non c’era nessun Stan Getz cui tirare la volata. Si poteva definire un ottimo dilettante ed un discreto professionista: ovvero uno che col jazz non avrebbe fatto né strada né soldi (e a dire la verità i soldi non riuscivano a farli neanche i capitani…). Il cameriere che stava sistemando il locale ancora chiuso, lo chiamava Enzò, l’italien, uno diplomato fresco dal conservatorio di Milano che studiava però da medico (non si sa mai, diceva il padre, con la musica non ci campi…).
Era venuto a Parigi con un gruppetto di smarriti giovincelli che sembravano in libera uscita a Pigalle, in cerca di donnine, e Pigalle era famosa per questo…
Quando suonavano ce la mettevano tutta e facevano la loro porca figura coi musicisti francesi, un po’ troppo frivoli e leccati che mitragliavano erre mosce e oui e non a non finire; il guaio era che a Parigi c’erano pure tanti americani, fissi o di passaggio, e con loro non c’era storia, dopo l’introduzione avevi già capito che non ti restava che dare l’anima per succhiargli la ruota, ma saresti stato in affanno tutta la sera.
Intanto si era avvicinato ad Enzò, a passi lenti ed incerti, come se camminasse sulle uova, un nero dallo sguardo spiritato che sembrava seguire fatti e linee di un discorso che si sviluppava sull’orizzonte misterioso oltre le pareti del locale, oltre i viali alberati di Pigalle, in un punto lontanissimo situato tra il cielo ed un inferno privato, inaccessibile per tutti.
Si appoggiò al piano, un vecchiotto piano verticale con sonorità al pastis ed al cognac, e fece un gesto d’incoraggiamento, come dire: vai avanti così!
Ma Enzò si era accorto che davanti a lui ad incitarlo, c’era uno dei santoni del bebop: quel Bud Powell che non era riuscito mai a metabolizzare, perché troppo avanti per lui. Si bloccò di scatto, alzandosi per salutarlo ed abbracciarlo. Si dissero qualcosa di incomprensibile, in un francese assolutamente comico, anzi in due francesi differenti: quello all’italiana, tutto impettito ed attento a non tralasciare di pronunciare anche le virgole, quello all’americana, che si mangiava metà delle parole che diventavano chewing gum e si allungavano ed esplodevano nei punti più sbagliati della frase. Finirono con qualche thank you e very good pronunciati in modi assai differenti da farle sembrare parole diverse di lingue diverse.
Bud prese il posto davanti al piano, posto che Enzò si era affrettato a cedere, sia per la voglia assoluta di ascoltare un dio in terra, sia per la vergogna di suonare davanti ad un tale calibro.
Iniziò una introduzione incerta, a tempo lento, come se stesse misurando la tastiera per la prima volta, poi iniziò Tempus fugit con una sobrietà una leggerezza da far sembrare tutto semplice, anche quella sintassi complessa ed ostica.
Terminato il brano, mentre Enzò e un paio di avventizi che si erano intrufolati nel bar nel frattempo, applaudivano convinti, Bud si mise a sorridere guardandoli con uno sguardo però spento, di uno che aveva i suoi santi in paradiso che avevano già rinuciato a marciare.
Prese per un braccio il Busterkiton di viale Argonne e lo spinse sul sedile, facendogli segno di suonare. Sul viso magro ed allucinato del futuro chirurgo apparve un’espressione del tipo “ma io cosa c’entro col jazz?” e tentò di rifiutarsi, schernendosi, ma Bud insistette e lui fu costretto a suonare.
Era nel panico più totale e non gli veniva più in mente nessun brano da fare, alla fine si mise a suonare "Ma l’amore no": la fece a tempo lento con qualche svolazzo di troppo, e poi raddoppiò il tempo alla Errol Garner.
Evidentemente la canzone piacque a Bud che alla fine lo applaudì convinto con l’aggiunta di qualche good e very good. “Yours?” gli chiese tre volte, prima che l’altro capisse e rispondesse con un “No. It is not mine. It is of D’Anzi, Giovanni D’Anzi, musicist of Milan, my town”.
Evidentemente era scattato un feeling tra lo spaurito clown milanese e lo spento fuggitivo di Harlem, in lotta con demoni tremendi localizzati nella sua mente, anche a causa di pestaggi un po’ troppo duri della polizia e degli elettroshock troppo disinvoltamente praticatigli per curarlo.
Bud stava cercando di spiegargli come migliorare la sua tecnica ed Enzò faceva si con la testa, pur non capendo quasi nulla; insisteva a toccargli la mano sinistra, come ad indicargli il suo punto debole. Gli prese delicatamente ma con decisione la mano destra e la spinse dietro alla schiena, facendo segno di suonare solo con la sinistra, la mano che faceva gli accordi e la ritmica, quella che creava le fondamenta, consentendo poi alla destra di farsi bella svolazzando di fiore in fiore. Enzò cominciò a suonare, ma era così nervoso ed a disagio, che continuava a muovere la destra, incerta tra lo stare tranquilla dietro la schiena e l’andare ad aiutare l’altra mano in affanno.
Impegnato in questo sforzo titanico, il nostro eroe non si accorse della sparizione di Bud e del suo rapido ritorno con una corda dorata da confezione regalo: con questa corda Bud tentò di legare la mano destra di Enzò ben fissa dietro la schiena. I movimenti erano lenti ed incerti ed i tentativi dell’altro di assecondarli sembravano sortire l’effetto contrario; ad un certo punto sembravano avvinti in un tango da taverna e subito dopo sembravano alle prese con dei movimenti di lotta libera. I movimenti scoordinati dei due li stavano per legare come dei salami ed i tentativi di sbrogliare la matassa erano tremendamente comici. Sembravano davvero Buster Keaton e Charlie Chaplin in Luci della ribalta.
Quando il cameriere venne loro in soccorso e li liberò tagliando la corda, i due risero come bambini ed il cameriere li guardò come se li vedesse per la prima volta nella loro giusta prospettiva: due dementi. Concluse la sua esibizione con un “jazzman” detto con un leggero tono di disgusto, come se ciò potesse spiegare tutto questo ed altro.
Allora Enzò non lo sapeva ancora, ma più tardi l’avrebbe capito: aveva di fronte una vita ferita che sapeva ormai rapportarsi con la gente solo grazie al piano, un uomo che tentava di scacciare gli incubi bevendo e bevendo se li inglobava definitivamente: un uomo con le scarpe da tennis.
Era un Giovanni telegrafista che mandava messaggi con continui piripiripiripi in salsa bop che nessuno capiva perché tutti si fermavano alla superficie, ai virtuosismi. Solo quando i virtuosismi si sarebbero fatti saltuari o spariti del tutto, avrebbero capito che il percorso si era chiuso definitivamente: ed allora si sarebbero fermati, un po’ sadici ed un po’ angosciati, certamente guardoni, ad assistere al piccolo calvario dell’ometto coi baffi, una via crucis con improvvisi bagliori inaspettati.
Ad un certo punto i due uscirono sul viale a guardare un tramonto inusuale, come due clown stanchi e si misero a camminare: non aspettarono nessun Godot, che anzi gli passò davanti e non li salutò neppure.
Ma questa è un’altra storia.

(Alberto Arienti)

giovedì 22 settembre 2016