Francis Albert Sinatra, detto Frank (Hoboken, 12 dicembre 1915 – West Hollywood, 14 maggio 1998), attore, cantante e ballerino, è stata una delle figure più influenti nel music business, nonchè il più grande cantante di musica popolare di tutti i tempi. Pur non essendo un vero cantante jazz, ha vinto per molti anni le classifiche come miglior cantante jazz, grazie al suo swing agile e potente. La prima playlist raccoglie alcuni suoi famosi album swing:
La seconda playlist raccoglie alcune incisioni più legate al jazz, dalle prime incisioni con Tommy Dorsey ai più maturi incontri con Duke Ellington e Count Basie, nonchè un piccolo live con un gruppo jazz.
La più grande dote di Sinatra è probabilmente legata alla sua abilità di attore: La capacità con cui racconta storie di amori finiti, con delle sfumature penetranti, in grado di valorizzare al massimo i testi. Ecco alcuni dei suoi album più intimi e drammatici:
Le sue avventure cinematografiche nei film musicali sono invece raccolte qui:
Il teatro di Dario
Fo è sempre stato un teatro pieno di musica e canzoni, anche perché
i suoi esordi sono stati nel mondo della rivista, Anche le sue
successive commedie surreali erano piene di canzoncine che
commentavano la storia. Ha partecipato a una Canzonissima
censuratissima, piene di sue canzoni ironiche ed alcune di esse sono
poi diventati dei successi nell'interpretazione di Enzo Jannacci. E'
stato anche regista di spettacoli di canti popolari
politici. L'appellativo del titolo, però, fa riferimento alla sua
opera più fortunata, quel Mistero Buffo che nel 1969 segnò
una svolta alla sua storia di teatrante. Mistero buffo è un monologo
in un dialetto nordico inventato che racconta le storie dei vangeli
in maniera non paludata, con un occhio molto attento alla
drammaturgia del Ruzante. Questo dialetto
padano-bergamasco-varesino consente a Fo di giocare sui suoni,
deformandoli ad uso comico o drammatico, utilizzando anche la tecnica
del grammelot, una lingua solo fonetica inventata ad
imitazione di lingue straniere ver. Insomma un linguaggio che un
appassionato di jazz definirebbe scat, ovvero quella
sillabazione onomatopeica che sostituisce il testo, portata alla
perfezione da Louis Armastrong e da Ella Fitzgerald. La
caratteristica principale del testo, ovvero delle varie versioni
diverse fra loro che nel tempo sono state rappresentate con lo stesso
titolo, è data dall'improvvisazione: un testo-canovaccio
frutto di un grande lavoro di ricerca che diventa il punto di
partenza per una serie di narrazioni con variazioni sul tema.
Variazioni causate anche dalla voglia dell'autore di agganciarsi alla
realtà, commentandola quasi in tempo reale, con continue battute
modificate in funzione degli accadimenti politici. Un'altro
aspetto che imponeva continui aggiustamenti del testo era dato dal
suo linguaggio: più lo spettacolo si allontava dal nord e più si
rendeva necessaria una spiegazione più accurata dei momenti salienti
della storia. In pratica il testo alla fine della stagione era molto
diverso da quello della prima. L'ultimo aspetto essenziale
dell'opera di Fo e del Mistero buffo in particolare, era il ritmo.
Come si sa il ritmo a teatro è una bella fetta del successo e nelle
commedie è un dato imprescindibile, per cui tutta la carriera di Fo
è stata un lungo viaggio a tempo di marcia, o meglio a ritmo di
swing.Nel suo recitare
solo la necessità di ritmo è tutta sulle spalle di un solo attore,
che ha il vantaggio di non doversi trascinare a volte attori non
all'altezza ma che comporta un gran dispendio di energie. Fo sapeva
conquistarsi il pubblico con crescendi travolgenti per poi rilassarsi
(e rilassare il pubblico) con dei momenti di calma dove gicava sulle
sfumature, ma pronto a riprendere la marcia con brio non appena si
accorgeva che il pubblico cominciava un po' a deconcentrarsi. Un gran
lavoro d'interazione attore-pubblico che rendeva una serata sempre
diverse dalle altre. Ovviamente tutto questo è stato realizzato al
massimo livello dal Fo della maturità, dove l'esperienza era aiutata
ancora da un perfetta tenuta scenica. Con gli anni, ovviamente, i
tempi si sono dilatati e l'effetto travolgente è stato sostituito da
quello sornione.
E' sicuramente il più grande jazzista vivente, lucido ed efficace anche in età molto avanzata.
Uno dei pochi altisti che ne dopoguerra non suonava come Parker, ha vissuto sempre con un'inesauribile voglia di rischiare che lo ha portato spesso su strade accidentate ed in avventure spesso con compagni non alla sua altezza, avventure da cui usciva sempre con l'onore delle armi.
E' sempre stato un musicista "difficile" che ha concesso poco è niente al pubblico, cosa che fa anche adesso, miracolosamente sveglio.
Youtube ci offre la possibilità di ascoltare alcuni suoi dischi importanti.
Il 10 ottobre 1917 nasceva Thelonious Monk, pianista, considerato il più grande compositore del jazz moderno, il secondo nella storia del jazz dopo Duke Ellington.
Su Monk ci sono state sempre aspre discussioni che riguardavano la sua tecnica pianistica ed i suoi detrattori proponrva Oscar Peterson come modello di "bravo Pianista". Ritengo pertanto interessante proporre la versione di Oscar della più celebre composizione di Monk: 'Round Midnight
92 anni fa nasceva uno dei pianisti più influenti del jazz moderno. Che cosa scorre nelle vene mr Powell? (dedicata a Bud Powell)
Che cosa scorre nelle vene mr Powell?
Be Bop? Be Bop! Quella lava incandescente che annienta il conformismo musicale esistente? Quell’adrenalina cubista di note cannibali in caccia spietata al conformismo? Che cosa scorre nelle vene mr Powell? Bop? Bop! Quello spiazzamento sistematico delle attese per cui tu ti aspetti qualcosa qui ed invece appare lì? Che cosa scorre nelle vene mr Powell? L’incapacità di stare fermi perché nessun posto è il tuo posto? L’essere così avanti da non ritrovarti più nemmeno fermando la tua vita per anni? L’essere Minotauro e Teseo senza il filo di Arianna? Che cosa scorre nelle vene mr Powell?
(poesia e disegno di Alberto Arienti)
A QUATTRO MANI
“E’ successo che, dopo il Conservatorio, sono finito per essere
etichettato come jazzista e invitato anche all’estero a suonare con
Ambrosetti. Arrivati a Pigalle, c’erano Ray Charles, Lou Bennett, Kenny
Clarke, Poi è comparso Bud Powell. Mi ricordo che dopo due giorni si è
affezionato a me e si è messo in testa di insegnarmi sul serio come si
suona lo strumento, insistendo a tal punto nel comunicarmi l’urgenza di
sviluppare la mano sinistra da arrivare a legarmi la destra dietro la
schiena.” Dall’intervista di Luca Cerchiari a Enzo Jannacci, pubblicata su Musica Jazz dell’aprile ’84.
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Il giovanotto magro con la faccia da Busterkiton stava suonando How
high the moon: suonava un po’ meccanicamente come una pianola che avesse
tradito Errol Garner per il bebop, però ci dava dentro. Era come un
gregario che stava tirando la volata al suo capitano, ma qui non c’era
nessun Stan Getz cui tirare la volata. Si poteva definire un ottimo
dilettante ed un discreto professionista: ovvero uno che col jazz non
avrebbe fatto né strada né soldi (e a dire la verità i soldi non
riuscivano a farli neanche i capitani…). Il cameriere che stava
sistemando il locale ancora chiuso, lo chiamava Enzò, l’italien, uno
diplomato fresco dal conservatorio di Milano che studiava però da medico
(non si sa mai, diceva il padre, con la musica non ci campi…).
Era
venuto a Parigi con un gruppetto di smarriti giovincelli che sembravano
in libera uscita a Pigalle, in cerca di donnine, e Pigalle era famosa
per questo…
Quando suonavano ce la mettevano tutta e facevano la
loro porca figura coi musicisti francesi, un po’ troppo frivoli e
leccati che mitragliavano erre mosce e oui e non a non finire; il guaio
era che a Parigi c’erano pure tanti americani, fissi o di passaggio, e
con loro non c’era storia, dopo l’introduzione avevi già capito che non
ti restava che dare l’anima per succhiargli la ruota, ma saresti stato
in affanno tutta la sera.
Intanto si era avvicinato ad Enzò, a passi
lenti ed incerti, come se camminasse sulle uova, un nero dallo sguardo
spiritato che sembrava seguire fatti e linee di un discorso che si
sviluppava sull’orizzonte misterioso oltre le pareti del locale, oltre i
viali alberati di Pigalle, in un punto lontanissimo situato tra il
cielo ed un inferno privato, inaccessibile per tutti.
Si appoggiò al
piano, un vecchiotto piano verticale con sonorità al pastis ed al
cognac, e fece un gesto d’incoraggiamento, come dire: vai avanti così!
Ma Enzò si era accorto che davanti a lui ad incitarlo, c’era uno dei
santoni del bebop: quel Bud Powell che non era riuscito mai a
metabolizzare, perché troppo avanti per lui. Si bloccò di scatto,
alzandosi per salutarlo ed abbracciarlo. Si dissero qualcosa di
incomprensibile, in un francese assolutamente comico, anzi in due
francesi differenti: quello all’italiana, tutto impettito ed attento a
non tralasciare di pronunciare anche le virgole, quello all’americana,
che si mangiava metà delle parole che diventavano chewing gum e si
allungavano ed esplodevano nei punti più sbagliati della frase. Finirono
con qualche thank you e very good pronunciati in modi assai differenti
da farle sembrare parole diverse di lingue diverse.
Bud prese il
posto davanti al piano, posto che Enzò si era affrettato a cedere, sia
per la voglia assoluta di ascoltare un dio in terra, sia per la vergogna
di suonare davanti ad un tale calibro.
Iniziò una introduzione
incerta, a tempo lento, come se stesse misurando la tastiera per la
prima volta, poi iniziò Tempus fugit con una sobrietà una leggerezza da
far sembrare tutto semplice, anche quella sintassi complessa ed ostica.
Terminato il brano, mentre Enzò e un paio di avventizi che si erano
intrufolati nel bar nel frattempo, applaudivano convinti, Bud si mise a
sorridere guardandoli con uno sguardo però spento, di uno che aveva i
suoi santi in paradiso che avevano già rinuciato a marciare.
Prese
per un braccio il Busterkiton di viale Argonne e lo spinse sul sedile,
facendogli segno di suonare. Sul viso magro ed allucinato del futuro
chirurgo apparve un’espressione del tipo “ma io cosa c’entro col jazz?” e
tentò di rifiutarsi, schernendosi, ma Bud insistette e lui fu costretto
a suonare.
Era nel panico più totale e non gli veniva più in mente
nessun brano da fare, alla fine si mise a suonare "Ma l’amore no": la
fece a tempo lento con qualche svolazzo di troppo, e poi raddoppiò il
tempo alla Errol Garner.
Evidentemente la canzone piacque a Bud che
alla fine lo applaudì convinto con l’aggiunta di qualche good e very
good. “Yours?” gli chiese tre volte, prima che l’altro capisse e
rispondesse con un “No. It is not mine. It is of D’Anzi, Giovanni
D’Anzi, musicist of Milan, my town”.
Evidentemente era scattato un
feeling tra lo spaurito clown milanese e lo spento fuggitivo di Harlem,
in lotta con demoni tremendi localizzati nella sua mente, anche a causa
di pestaggi un po’ troppo duri della polizia e degli elettroshock troppo
disinvoltamente praticatigli per curarlo.
Bud stava cercando di
spiegargli come migliorare la sua tecnica ed Enzò faceva si con la
testa, pur non capendo quasi nulla; insisteva a toccargli la mano
sinistra, come ad indicargli il suo punto debole. Gli prese
delicatamente ma con decisione la mano destra e la spinse dietro alla
schiena, facendo segno di suonare solo con la sinistra, la mano che
faceva gli accordi e la ritmica, quella che creava le fondamenta,
consentendo poi alla destra di farsi bella svolazzando di fiore in
fiore. Enzò cominciò a suonare, ma era così nervoso ed a disagio, che
continuava a muovere la destra, incerta tra lo stare tranquilla dietro
la schiena e l’andare ad aiutare l’altra mano in affanno.
Impegnato
in questo sforzo titanico, il nostro eroe non si accorse della
sparizione di Bud e del suo rapido ritorno con una corda dorata da
confezione regalo: con questa corda Bud tentò di legare la mano destra
di Enzò ben fissa dietro la schiena. I movimenti erano lenti ed incerti
ed i tentativi dell’altro di assecondarli sembravano sortire l’effetto
contrario; ad un certo punto sembravano avvinti in un tango da taverna e
subito dopo sembravano alle prese con dei movimenti di lotta libera. I
movimenti scoordinati dei due li stavano per legare come dei salami ed i
tentativi di sbrogliare la matassa erano tremendamente comici.
Sembravano davvero Buster Keaton e Charlie Chaplin in Luci della
ribalta.
Quando il cameriere venne loro in soccorso e li liberò
tagliando la corda, i due risero come bambini ed il cameriere li guardò
come se li vedesse per la prima volta nella loro giusta prospettiva: due
dementi. Concluse la sua esibizione con un “jazzman” detto con un
leggero tono di disgusto, come se ciò potesse spiegare tutto questo ed
altro.
Allora Enzò non lo sapeva ancora, ma più tardi l’avrebbe
capito: aveva di fronte una vita ferita che sapeva ormai rapportarsi con
la gente solo grazie al piano, un uomo che tentava di scacciare gli
incubi bevendo e bevendo se li inglobava definitivamente: un uomo con le
scarpe da tennis.
Era un Giovanni telegrafista che mandava messaggi
con continui piripiripiripi in salsa bop che nessuno capiva perché
tutti si fermavano alla superficie, ai virtuosismi. Solo quando i
virtuosismi si sarebbero fatti saltuari o spariti del tutto, avrebbero
capito che il percorso si era chiuso definitivamente: ed allora si
sarebbero fermati, un po’ sadici ed un po’ angosciati, certamente
guardoni, ad assistere al piccolo calvario dell’ometto coi baffi, una
via crucis con improvvisi bagliori inaspettati.
Ad un certo punto i
due uscirono sul viale a guardare un tramonto inusuale, come due clown
stanchi e si misero a camminare: non aspettarono nessun Godot, che anzi
gli passò davanti e non li salutò neppure.
Ma questa è un’altra storia.
Tra i jazzisti che sono passati a scrivere per il cinema ci sono Amedeo Tommasi e Giovanni Tommaso, riuniti oltre che da cognomi assonanti, anche da una frequentazione di lunga data.
Qui si parla di Amedeo, anzi è lui stesso che parla di sè in un'intervista, ma c'è anche un po' della sua musica.
Invece qui si parla di Giovanni (e anche del fratello Vito e degli altri amici del quintetto di Lucca, nonchè del Perigeo).
Per eliminare poi qualche equivoco, si parla anche di un altro bassista che ha lo stesso cognome, pur non avendo legami di parentela con Giovanni, e cioè di Bruno Tommaso.
Il sito JazzFilm ha terminato, a meno di ulteriori aggiunte dovute alle nuove programmazioni, la discussione di film legati al jazz ed ha pubblicato gli indici dettagliati. A qualcuno potrebbero interessare.